Primo maggio, festa della mancanza di lavoro

di Alberto Comuzzi – La festa del lavoro, 1° Maggio, quest’anno cade mercoledì della prossima settimana e chiude il lungo “ponte” di vacanze iniziato giovedì 25 Aprile, che...

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di Alberto Comuzzi – La festa del lavoro, 1° Maggio, quest’anno cade mercoledì della prossima settimana e chiude il lungo “ponte” di vacanze iniziato giovedì 25 Aprile, che per il nostro Paese è la data simbolica della fine della guerra civile, iniziata l’8 Settembre 1943 e conclusasi ai primi di Maggio del 1945 al termine della seconda guerra mondiale.

Stando ai bollettini del traffico (21 milioni di automezzi in circolazione) e alle dichiarazioni dei responsabili nazionali del turismo. in particolare di quelli del settore alberghiero (13,4 milioni di presenze nelle strutture ricettive, con una crescita stimata del +2,1% sul 2018), dovremmo dedurre che l’Italia, sotto il profilo economico, va davvero alla grande e che celebrare la festa del lavoro ha un senso appropriato e logico.

Purtroppo le statistiche impietose dell’ Istat confermano il contrario, tanto da poter confortare l’opinione di coloro che ritengono che meglio sarebbe ribattezzare il 1° Maggio come “la festa della mancanza di lavoro”. Sì, perché su più di 60 milioni di residenti in Italia, gli occupati sono circa 23,5 milioni, ovvero il 39 per cento (Rapporto Istat “Partecipazione al mercato del lavoro della popolazione residente” relativo al secondo trimestre 2018), mentre i disoccupati si attestano attorno ai 3 milioni (per la precisione sarebbero 2.912.000 al 31 Dicembre 2018).

L’Italia continua ad essere in coda tra i Paesi europei sul fronte della disoccupazione: è terzultima per tasso di disoccupazione generale (11,2%), seguita da Spagna (14,1%) e Grecia (18,5%). Risulta però penultima se si osserva il dato sui giovani: 32,6 per cento di disoccupati davanti sola alla Grecia, ultima, con il 39,1 per cento. Nell’Unione Europea la disoccupazione giovanile è al 15,2 per cento, meno della metà di quella italiana, ma ci sono Stati che registrano percentuali ancor più basse: Malta (5,5%), Germania (6,2%) e Paesi Bassi (7,2%).

Se è vero, come è vero, che la crisi del 2008 ha colpito l’intero Occidente e se i dati che abbiamo citato non sono confutabili, qualche semplice considerazione ci corre l’obbligo di fare.

Malta, Germania e Paesi Bassi sono intrisi di etica protestante (o meglio evangelica) che concepisce il lavoro come una benedizione divina, mentre in larghe fasce della popolazione italiana, per una male interpretata cultura cattolica , il lavoro è tutt’oggi visto come una maledizione, come una costrizione alla quale non ci si può sottrarre per vivere.

Per anni, complici purtroppo anche i sindacati dei lavoratori, nel nostro Paese s’è diffusa una cultura avversa al mondo delle aziende e, più in generale, degli imprenditori, piccoli o grandi, degli artigiani e persino dei professionisti.

Questa cultura ha misconosciuto che la ricchezza e il benessere di una società dipendono esclusivamente da coloro che sanno creare posti di lavoro, rischiando il proprio patrimonio e spesso anche la salute personale e quella dei propri famigliari: gli imprenditori.

Certo la globalizzazione ha creato anche fenomeni come la delocalizzazione, ha agevolato la concentrazione di enormi patrimoni nelle mani di poche persone rafforzandone la già spiccata rapacità, ha permesso alla finanza creativa di nuocere a milioni di risparmiatori, ma là dove il lavoro è un valore acquisito, un’aspirazione che permea la coscienza, la disoccupazione è sempre molto contenuta.

È riduttivo giustificare l’assenteismo di taluni impiegati pubblici definendo sbrigativamente alienante, perché ripetitivo, il loro lavoro, che comunque è garantito, è sicuro e per il quale sono regolarmente retribuiti. L’assenteista e il dipendente poco produttivo (anche delle grandi aziende private) incarnano perfettamente la cultura del disprezzo del lavoro e testimoniano quanto ne ignorino il valore salvifico.

A mettere in luce quest’ultimo aspetto è stato san Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II: « Il Dio che si fa Uomo non disdegna il lavoro dell’uomo, anzi, sceglie di esercitarlo per quasi tutta la sua vita. Egli è, appunto, “il figlio del carpentiere”. L’Uomo-Dio accoglie tra le proprie mani il lavoro e, così facendo, lo santifica, gli conferisce cioè un valore divino, infinito, salvifico».

Ora che il lavoro scarseggia lo si pretende dai governi, che raramente hanno ministri capaci di promuoverlo. Adesso in tempo, un lungo tempo, di vacche magre si sfila in corteo per invocare il lavoro.

Chi ricorda più gli slogan “Agnelli, Pirelli, con le vostra budella faremo tortelli” che gruppi di minacciosi operai urlavano nei cortei organizzati nelle vie di Milano per bloccarne, ad arte, la viabilità?  Chi ricorda i giganteschi striscioni degli operai della Fiat in cui si ostentava che “a salario di merda, lavoro di merda”?

Un po’ come per la salute che apprezziamo come grande dono quando la perdiamo, oggi avviene con il lavoro che si torna ad apprezzare perché non c’è più.

Chissà quando il 1° Maggio tornerà ad essere la Festa del lavoro?

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