Fabrizio Capobianco il prodigio italiano delle start-up

di Donatella Salambat “Al valtellinese che ha onorato la sua valle con il suo lavoro”: questa la motivazione con cui a Fabrizio Capobianco, 49enne sondriese, creatore di importanti...

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di Donatella Salambat “Al valtellinese che ha onorato la sua valle con il suo lavoro”: questa la motivazione con cui a Fabrizio Capobianco, 49enne sondriese, creatore di importanti software, è stato conferito il Lavegin D’Or 2019 dall’ Associazione Culturale Valtellinese, che giovedì 14 Marzo lo ha invitato nella sua sede milanese di via Palestro per ascoltare la sua esperienza di imprenditore in Silicon Valley.

Fabrizio Capobianco, persona semplice e orgogliosa delle sue origini valtellinesi, in maniche di camicia e bretelle, senza formalismi, racconta la sua esperienza. Dice: dopo la laurea in ingegneria presso l’Università di Pavia, nel 1999, mi sono trasferito definitivamente negli Stati Uniti per seguire mia moglie, biologa, invitata per un “post-doc” a Stanford. Lì mi è parso tutto molto bello.

L’America diventa subito la mia seconda patria e questo Paese così dinamico e ricco di opportunità mi permette di dare vita alla mia prima società. Oggi mi sento di riassumere l’esperienza americana in tre tappe: nel 1995, quando ero “invited scientist” ai laboratori Hewlett-Packard a Palo Alto ho capito che la mia preparazione tecnica era equivalente a quella degli ingegneri americani in Silicon Valley anche perché con internet le distanze si erano annullate. Nel 2000 a Tibco/Reuters mi sono reso conto che gli ingegneri che avevo nelle aziende aperte in Italia erano più bravi di quelli che lavoravano a Silicon Valley. Nel 2005 quando due Venture Capital “mi hanno firmato un assegno da 5 milioni di dollari con cui ho realizzato Funambol.

Negli Stati Uniti non conta chi è tuo padre, chi conosci, che titoli hai, ma ciò che sai fare e dove ti riprometti di andare. Io sono il sogno Americano. Un ragazzo della Valtellina che arriva in America e trova chi crede nelle sue idee. Con una piccola variazione: i soldi americani li ho portati in Italia.

Fabrizio, inizia la sua carriera di imprenditore creando “Internete Graffiti” e “Funambol” che colloca subito a Pavia. Con quest’ultima società crea l’ applicazione su cui salvare su cellulare o tablet foto, video, canzoni per poterli riportare su altri dispositivi. La più recente app che ha realizzato è “Tok.tv”, un dispositivo che permette di commentare mentre su vedere una partita di calcio insieme con amici posizionati in qualsiasi parte del mondo purché connessi. Una applicazione che avrebbe già raggiunto 36 milioni di utenti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina. «Non c’e’ Paese al mondo in cui non abbiamo qualcuno che ha usato il nostro software». Spiega. «Il software è stato fatto da un gruppo di ragazzi dispersi per l’Italia, che lavorano da casa in pantofole quando hanno voglia, e si vedono di persona una volta ogni tre mesi».

La genialità e l’intraprendenza del giovane imprenditore valtellinese fa comprendere come il “Made in Italy” di cui oggi si parla tanto non è solo moda o cibo, ma è anche sviluppo del digitale.

Per Fabrizio la Silicon Valley, è «giocare la Champions League dell’informatica» e lui, da grande tifoso juventino, ha voluto cogliere l’occasione e giocare in un campo così competitivo, «Qui le aziende di tecnologia cambiano il mondo, anche se i cervelli migliori sono in Italia».

In America, Capobianco, ha realizzato società facendo ciò che ha sempre desiderato fare fin da quando studiava all’università di Pavia, creare software con i migliori cervelli con cui potesse collaborare; infatti le sue aziende hanno tutte il quartier generale in America ma i cervelli sono esclusivamente italiani.

Capobianco ha un progetto, in fase embrionale, ma al quale sta comunque lavorando: creare in Valtellina un laboratorio con giovani talenti capaci di generare software innovativi da vendere nei mercati internazionali.

Le start-up sono aziende di tecnologia ad alto potenziale di crescita e si possono realizzare ovunque nel mondo. L’importante è tenere ben presente che il mercato deve essere quello globale e non locale.

Creare le basi di una imprenditorialità in Italia come in America secondo Fabrizio non è tanto un problema di capitali, ma di mentalità: «Fare impresa vuol dire rischiare, e fallire è il risultato più probabile. In Italia, chi fallisce è finito, e quindi non può permettersi di rischiare troppo. In Silicon Valley, chi fallisce ha fatto esperienza. E’ più facile ricevere capitali di ventura se si è falliti un paio di volte (e si ha imparato) che se non si ha mai provato. Non so quanto ci metteremo a cambiare la mentalità del fallimento in Italia, purtroppo».

Il 50% dei lavori che facciamo adesso, fra 30 anni li faranno i robot, sottolinea ancora Fabrizio. Qualcuno li dovrà programmare. Le ragazze – per esperienza personale – sono più brave dei maschi a “sviluppare” (fare software). E’ un lavoro bellissimo che dà un sacco di soddisfazione. Come giocare a Lego tutto il giorno e si viene anche pagati profumatamente.

Fabrizio sembra aver messo in pratica una frase di Papa Benedetto XVI “il diritto a non emigrare per lavorare” in un momento così difficile non solo per l’Italia ma per l’intera Europa dove il lavoro sembra quasi una chimera. Fabrizio sembra aver capito il segreto di come superare la crisi del mondo del lavoro: creare società con capitali stranieri e cervelli italiani (che non sono secondi ad altri sul piano della creatività) e qualora si dovesse fallire l’importante è non demoralizzarsi, ma ricominciare.

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