Le élite politiche non son tutte uguali

di Alberto Comuzzi  «Compito dello Stato è favorire lo sviluppo del Paese affiancando e incentivando l’impresa privata tramite la realizzazione di riforme che ne agevolino le iniziative: la...

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di Alberto Comuzzi  «Compito dello Stato è favorire lo sviluppo del Paese affiancando e incentivando l’impresa privata tramite la realizzazione di riforme che ne agevolino le iniziative: la costruzione di infrastrutture, una riforma fiscale, uno snellimento della burocrazia, una nuova legislazione sociale, la modernizzazione dell’agricoltura, il potenziamento e l’allargamento delle industrie e, ultima ma non meno importante, una nuova politica scolastica».

Questo progetto politico, cari lettori, sembrerebbe dettato da un dei tanti Presidenti del Consiglio dei ministri che si sono avvicendati alla guida dell’Italia negli ultimi vent’anni. Non è così. Per non lasciarvi troppo sulle spine sveliamo subito il nome di chi lo ha proposto, appena eletto Primo ministro, nel lontano 1852. Sì, avete letto bene: 1852, quattro anni dopo i moti rivoluzionari del 1848. È quel Camillo Benso conte di Cavour di cui abbiamo studiato, spesso frettolosamente, la figura e le gesta e del quale ricordiamo, forse a mala pena, avere contribuito in modo sostanziale all’unità d’Italia. “Corsi e ricorsi storici”, ci verrebbe da dire con il filosofo napoletano Gian Battista Vico (1688-1744), il quale sosteneva che «l’uomo è sempre uguale a se stesso, pur nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti storici. Ciò che si presenta di nuovo nella storia è solo paragonabile per analogia a ciò che si è già manifestato».

Da semplici appassionati di Storia – non certo da studiosi o cultori della materia – siamo sorpresi dalle analogie tra i giorni che viviamo e quelli vissuti dai nostri bisnonni e trisavoli nel Marzo 1848, giorni che videro insurrezioni vere e proprie. A parte il forte desiderio di unificazione nazionale, è interessante notare il parallelismo tra le cause economiche del tempo (che sfociarono nei moti rivoluzionari) con quelle odierne: la durissima crisi economica, la caduta della domanda dei beni di consumo, l’aumento del tasso di disoccupazione. In un’economia fondamentalmente basata sull’agricoltura queste cause furono dirompenti: la contrazione della produzione agricola fece crollare la domanda di beni; questa depressione portò all’aumento del numero dei disoccupati e nemmeno i legami tra i diversi mercati europei riuscirono a risollevare la situazione, anzi, aiutarono il propagarsi della crisi e aggravarono le sue conseguenze.

Pochi anni dopo, ad unità compiuta, i vari governi d’impronta liberale si trovano a dover affrontare una questione che pare irrisolta tutt’oggi a distanza di 160 anni: le differenze vistose tra Nord e Sud del Paese.

Nel 1861 l’Italia registrava diverse percentuali di analfabetismo, con una maggiore presenza di analfabeti nel Sud di circa il 30%; una maggiore estensione della rete stradale e ferroviaria del Nord rispetto a quella del Sud; una struttura della proprietà agricola, con la presenza del latifondo al Sud, mentre al Nord si diffondevano le aziende agricole moderne condotte con criteri capitalistici.

Quali misure prese l’allora classe dirigente politica? L’accentramento governativo, la cosiddetta “piemontizzazione” della Penisola, tenendo in poco – ma sarebbe meglio dire, in nessun – conto le grandi differenze delle varie regioni italiane. Una scelta, quella del centralismo, che fu vissuta dal Mezzogiorno come una vera e propria forma di colonialismo e che incentivò il fenomeno del brigantaggio (per altro già presente nel Regno delle due Sicilie).

Oggi, con l’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, torna in superficie la questione del divario tra Nord e Sud che si potrebbe finalmente risolvere. Il problema, ancora una volta, non è posto dai cittadini, ma dalle élite politiche del Sud nei confronti di quelle del Nord. In uno stato centralistico le prime si possono ben mimetizzare.

In uno Stato dove molte competenze vengono decentrate alle Regioni occorre possedere competenze amministrative e qualità di governo elevate per dare risposte concrete ai territori. Lì è difficile sfuggire al controllo di cittadini che possono misurare la qualità dei propri servizi con quelli goduti dai loro connazionali in altre Regioni. La resistenza all’autonomia differenziata sta nella consapevolezza che, mancando amministratori qualificati in troppe Regioni del Sud, i cittadini di quelle terre prendano coscienza che anche la loro classe politica nazionale vada sostituita.

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