I governi africani non hanno responsabilità nell’emigrazione?

di Alberto Comuzzi Il leader turco Recep Tayyip Erdoğan vuole rinegoziare l’accordo stipulato con l’Ue e chiedere altri 3 miliardi di euro (oltre ai 6 già incassati) per...

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di Alberto Comuzzi Il leader turco Recep Tayyip Erdoğan vuole rinegoziare l’accordo stipulato con l’Ue e chiedere altri 3 miliardi di euro (oltre ai 6 già incassati) per continuare a tenere i migranti sul proprio territorio.

La Turchia, che nel 2018 ha fermato circa 268.000 persone sulla via del’Europa e più di 170.000 nel 2019, è insoddisfatta del riscontro ottenuto dall’Europa e minaccia di aprire le frontiere con Grecia e Bulgaria se l’accordo non sarà rinegoziato.

Alla mancata abolizione dei visti per i cittadini turchi che vogliono entrare in Europa e alla mai arrivata svolta per l’ingresso nell’Ue si aggiunge la lamentela di Ankara, secondo cui 6 miliardi di euro (3 dei quali in via di erogazione), non sono sufficienti a coprire uno sforzo economico che fino ad ora sarebbe costato – secondo Erdoğan – 40 miliardi di dollari alle casse del Paese.

Insomma, un bel ricatto agli europei: o pagate o vi spedisco 430.000 migranti a breve giro di posta. In Libia i vari capi clan che gestiscono, insieme alla criminalità organizzata, il flusso migratorio ragionano né più né meno come Erdoğan. Così sulla pelle di milioni di poveri disgraziati si continua a lucrare come con gli schiavi di qualche secolo fa.

Gli esperti ci spiegano che le migrazioni sono un fenomeno mondiale irreversibile. Ferme restando le ragioni di chi chiede rifugio a causa di guerre o perché vittima di ingiuste persecuzioni, tutte le altre motivazioni, soprattutto quelle economiche che spingono una persona ad emigrare, potrebbero essere drasticamente frenate.

Nessuno lascia a cuor leggero il proprio luogo di nascita, la casa, gli affetti, le consolidate consuetudini. Chi è costretto ad emigrare per migliorare la propria condizione di vita, legittimamente, ha una malinconica certezza: nel suo Paese non ci sono le condizioni perché egli possa rimanere.

La questione sta proprio qui: la responsabilità dei governi o, più in generale, delle élite, delle classi dirigenti dei Paesi ad alta emigrazione i quali non hanno le capacità di creare condizioni di sviluppo per i propri connazionali.

È stato così per l’Italia, subito dopo la riunificazione dal 1870 al 1900 e nell’immediato dopo guerra, dal 1945 al 1960; ed è così ora per tanti Paesi dell’Africa. Gli emigranti italiani, sia nelle due Americhe del Nord e del Sud, sia in Australia sono stati integrati piuttosto velocemente perché il loro substrato culturale, improntato ai valori cristiani, era sostanzialmente identico a quello delle comunità dei Paesi d’accoglienza.

Gli emigranti  africani che premono per venire in Europa hanno una visione della vita ispirata ai principi del Corano che, oggettivamente, è un tantino diverso dal Vangelo e dalla Torah.

Secondo l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, la maggior parte dei migranti che sbarcano sulle coste italiane proviene da Paesi dell’Africa subsahariana quali Nigeria (minacciata dal terrorismo islamico di Boko Haram), Sudan, Gambia, Costa d’Avorio, Eritrea, Somalia, Mali, Ciad, Senegal, oltre che da altre zone geografiche quali Pakistan, Afghanistan, Egitto e Siria.

Si tratta di Paesi a maggioranza musulmana. Integrare nel Vecchio Continente un fedele di Allah significa imporgli di convertirsi a stili di vita e comportamenti innaturali, inconcepibili con i valori nei quali è cresciuto. Da qui anche la fatica – e gli scarsi risultati – di tante iniziative promosse per accogliere e integrare migliaia di migranti.

Senza fare facili speculazioni c’è però da chiedersi da dove originino certi episodi di violenza gratuita perpetrati ai danni di pacifici cittadini italiani da parte di immigrati sia dei Paesi dell’Est Europa, sia dell’Africa. Liquidare tutto e sempre con la risposta: «Gli squilibrati, i violenti, i malfattori ci sono anche in Italia» è un modo, più che semplicistico, banale.

L’episodio del ventiquattrenne del Togo che manda due donne all’ospedale (una facendola ruzzolare dalle scale e l’altra sferrandole un pugno in viso) causalmente incrociate sul suo cammino nella stazione di Lecco, lunedì 8 Settembre, è il più recente di una lunghissima catena di drammatici fatti di cronaca che hanno per protagonisti immigrati. Non a caso il 70 per cento degli ospiti delle patrie galere è straniero.

Inutile girarci attorno: tra tanti immigrati che, con lodevole fatica, cercano d’inserirsi in una società a loro estranea, ve ne sono, purtroppo ancora molti altri che, per disagio personale o per mille altre motivazioni, delinquono, creando angoscia, insicurezza e risentimento in milioni di italiani.

Al nostro Paese non basta sopportare i reati della criminalità organizzata autoctona; no, deve pure subire quelli degli stranieri presenti nel suo territorio e spesso mantenuti non si sa a che titolo.

Resta però un dato oggettivo e inconfutabile: i migranti africani provengono quasi tutti da Paesi a prevalenza musulmana, il che significa che i modelli di sviluppo di quegli Stati, almeno per ora, sono fallimentari. I Paesi che accolgono immigrati sono invece tutti di cultura giudaico-cristiana. Sarà brutale ammetterlo e certamente “non politicamente corretto”, ma i valori giudaico-cristiani primeggiano su qualsiasi altro nel generare modelli di società più rispondenti alle aspettative dell’uomo.

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