Quanti preti e suore finirono nelle foibe?

di Donatella Salambat – Padre Antonio Curcio, parroco di Bencovaz (Dalmazia), don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, don Giovanni Manzoni, parroco di Rava (Sebenico), don Ladislao Piscani,...

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di Donatella Salambat – Padre Antonio Curcio, parroco di Bencovaz (Dalmazia), don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, don Giovanni Manzoni, parroco di Rava (Sebenico), don Ladislao Piscani, vicario di Circhina (Go), don Miroslavo Bullesich, parroco di Mompaderno e vice direttore del Seminario di Pisino, sei suore scomparse da un convento di Fiume e 76 religiosi di cui non si è saputo più nulla, padre Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, oggi beati, uccisi entrambi in “odium fidei” sono alcuni dei numerosi sacerdoti e suore che, dal 1943 al 1948, persero la vita gettati nelle foibe insieme ad un imprecisato numero di persone, colpevoli di essere italiane.

C’è chi dice che gli infoibati siano stati 12.000, chi 15.000 e chi addirittura 30.000. Non sono mai stati censiti gli omicidi efferati perpetrati dalle milizie del leader comunista Josip Broz Tito, ma di alcuni che hanno riguardato sacerdoti e religiosi è rimasta traccia. Tra questi quelli di don Raffaele Busi Dogali e don Giovanni Pettenghi, pugnalati a morte rispettivamente il 15 Giugno ed il 2 Agosto, in Dalmazia, don Antonio Pisic, assassinato il 31 Gennaio 1945, don Lodovico Sluga, ucciso assieme ad altre 12 persone, il seminarista Erminio Pavinci da Chersano (Fianona) ucciso insieme al padre Matteo, il parroco di Golazzo (diocesi di Fiume), prelevato dai titini il 14 Agosto 1947 mentre accompagnava un funerale,

Una legge dello Stato del 2004 ha istituito Il Giorno del ricordo per rinnovare la memoria e rendere omaggio alle vittime dei massacri avvenuti tra il 1943 e il 1948 nelle terre del cosiddetto “confine orientale”. Si tratta di una delle pagine più oscure della storia del nostro Paese.

Sono trascorsi oltre settant’anni e le foibe e gli infoibati sono ancora, per una parte della società italiana, una strage negata, una tragedia spesso usata per creare accese polemiche o strumentalizzazioni. Foibe è un termine che nell’immaginario collettivo è paragonato ad un fenomeno inquietante di cui ancora oggi si tende a far restare imprecisati i contorni, le ragioni e soprattutto gli autori principali.

In un lembo di terra, oggi prevalentemente chiuso nei confini della Croazia, dal 1943 al 1946, sono stati eliminati migliaia di cittadini italiani uccisi per motivi più di natura etnica che politica dall’esercito jugoslavo del maresciallo Tito. I loro corpi, gettati nelle cavità carsiche, appunto le foibe, subirono pure lo sfregio di essere private di una degna sepoltura. Ci furono pure casi di persone vive legate ad un cadavere e gettate in gole profonde 30/40/50 metri. La brutalità umana raggiunge talvolta abissi raccapriccianti.

Gli invasori slavi cercarono di colpire anzitutto coloro che appartenevano alla classe dirigente italiana o che costituivano punti di riferimento, di aggregazione e di ordine civico: intellettuali, imprenditori, insegnanti, medici, militari ed ecclesiastici. L’odio nei confronti di questi ultimi derivava anche dalle convinzioni ideologiche dei partigiani jugoslavi, essendo Tito all’epoca stretto alleato di Stalin.

Dopo il totale annullamento di ogni apparato civile e militare italiano in Venezia Giulia e Dalmazia, erano rimasti sul posto soltanto vescovi e sacerdoti in grado di rappresentare la popolazione italiana, la quale era molto religiosa.

Fra le cause che indussero all’Esodo circa 300mila Italiani della Venezia Giulia, un ruolo importante lo ha svolto la persecuzione religiosa, che fu portata avanti con il preciso intento di spingere gli italiani ad andarsene.

Tantissimi sacerdoti affrontano con coraggio e determinazione la difficile e pericolosa situazione determinatasi. Uomini di pace e di concordia si prodigavano per soccorrere tutti (italiani e slavi), per aiutare amici e nemici, per dare sepoltura cristiana a tutti coloro che erano vittime dell’odio e delle vendette più feroci. Molti di quei coraggiosi sacerdoti cercano anche di rintracciare le persone uccise per dare loro una degna sepoltura.

Fra le figure di religiosi balzati alla cronaca e rimasti nei cuori degli esuli giuliano-dalmati possiamo citare monsignor Antonio Santin, che a Capodistria venne assaltato da una folla di titini inferociti sotto lo sguardo indifferente delle guardie del Popolo.

Padre Francesco Bonifacio e don Miro Bulesic, oggi beati e periti in “odium fidei”. Il primo fu sorpreso lungo la strada di casa da quattro guardie popolari; picchiato a morte i suoi resti non furono mai ritrovati (si pensa siano stati infoibati).

Il secondo, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino, fu trucidato il 24 Agosto del 1947 dopo aver cresimato 237 ragazzi nella chiesa di Lanischie, sempre in Istria. Alla fine della liturgia don Miroslav e monsignor Jacob Ukmar furono assaliti dai militanti comunisti che volevano impedire la celebrazione delle cresime. Le milizie croate fecero irruzione nella canonica dove sgozzarono don Miroslav e picchiarono a sangue monsignor Ukmar.

Don Angelo Tarticchio originario di Gallesano d’Istria all’età di 36 anni fu arrestato dai partigiani comunisti, malmenato e ingiuriato insieme ad altri compaesani, dopo orribili sevizie fu gettato nella foiba di Gallignana. Riesumato il corpo fu trovato completamente nudo con una corona di spine conficcata nella testa.

Questi alcuni dei fatti che colpirono quelle terre e che videro sacerdoti e suore vessati dalle milizie titine sia per la loro fede, sia perché difensori e guide di inermi popolazioni.

Alle uccisioni ed aggressioni contro gli ecclesiastici italiani si sommarono altre violenze gratuite come la distruzione di edifici e arredi sacri.

Oggi, questi luoghi di inumane tragedie, sono conosciuti per le spiagge ed il mare; sono diventati centri di villeggiatura e di divertimento, anche per molti italiani: Koper (Capodistria), Pula (Pola), Rijeka (Fiume), Rovinj (Rovigno), Novigrad (Cittanova d’Istria), ma l’Italia qui non è solo nei nomi ormai dimenticati, ma è nella cultura e nei monumenti e nella memoria di quegli esuli che furono costretti ad abbandonare la propria terra, gli amici, la casa e il lavoro per salvare la vita.

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