Nel presepe San Giuseppe è più di una statuetta

di Alberto Comuzzi – C’è una statuetta del presepio, che anche questo Natale ci accingiamo ad allestire, raffigurante un personaggio fondamentale che raramente viene messo in luce: san...

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di Alberto Comuzzi – C’è una statuetta del presepio, che anche questo Natale ci accingiamo ad allestire, raffigurante un personaggio fondamentale che raramente viene messo in luce: san Giuseppe. Eppure, oltre che primo sacerdote in quanto custode di Gesù, Giuseppe è la figura più limpida ed esemplare della paternità. Di quella paternità di cui proprio la nostra umanità, proiettata al terzo millennio, ha tanto bisogno.

Viviamo in una società che, a parole, dice di pensare ai giovani, al loro futuro e dà grande rilevanza alle proposte, ai messaggi espressi da alcuni di loro. Pensiamo a Greta Thunberg, l’attivista svedese che ha lanciato gli scioperi scolastici per il cambiamento del clima o alla tedesca Carola Rakete, convinta sostenitrice dei crediti che i popoli del Terzo mondo esigono nei confronti delle politiche coloniali praticate dagli europei, o al leader delle sardine, Mattia Santori, che si batte per un’Italia migliore.

Di fatto anche questi giovani finiscono, loro malgrado, per essere ostaggio di navigati volponi che li indirizzano su strade ben precise. In linguaggio sessantottino avremmo detto: li strumentalizzano. I vecchi furbacchioni, per ottenere la benevolenza dei giovani, rammentano che “il futuro è loro”, ma si guardano bene dall’aggiungere “intanto il presente è nostro”. Quante innocenti istanze sono deluse da marpioni ben assestati su poltrone apicali.

Il mondo ha bisogno di padri, di semplici padri capaci di essere tali per fare il bene innanzi tutto dei propri figli e conseguentemente dell’intero universo giovanile. Molti uomini appartenenti alle ultime due generazioni sembrano avere abdicato al loro ruolo di mariti, incapaci di prendersi cura delle proprie mogli/compagne di vita, ma soprattutto di svolgere l’insostituibile ruolo di padri.

Spinti (o ingannati?) da una cultura che li voleva eternamente giovani anche quando, lasciati i genitori, formavano una propria famiglia, queste schiere di giovanilisti hanno ritenuto di vestire i panni dell’amico dei propri figli e non quello del padre. Senza scomodare “il complesso di Edipo” di Freudiana memoria, una miriade di studi di filosofi, medici, psicologi, antropologi, sociologi e chi più ne ha, più ne metta, hanno dimostrato che i bambini, gli adolescenti, i giovani hanno bisogno di chiare figure paterne, di uomini adulti in grado di sostenerli e anche di correggerli, all’occorrenza, con decisi “no”.

San Giuseppe, a cui spesso è collegato l’appellativo di “lavoratore”, s’è preoccupato di proteggere suo Figlio (fuggendo in Egitto quando la sua vita era in pericolo), di insegnargli i trucchi del proprio mestiere di falegname (attraverso il quale guadagnarsi onestamente da vivere), ma anche di educarlo con gesti silenziosi frutto d’amorevoli rimproveri («Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati ti cercavamo», come riferisce l’evangelista Luca).

L’umanità intera ha bisogno di padri protagonisti nei processi educativi, solidali e complementari con le funzioni svolte dalle proprie mogli, vestendo totalmente il ruolo simbolico e reale di colui che si assume responsabilità verso il figlio elevandolo, benedicendolo e iniziandolo alla vita nella società.

È stato osservato che, a 5 anni d’età, ciò che dice il papà «è Vangelo»; a 15 anni, «papà ha ragione però … non sempre»; a 25 anni, «papà è superato, un uomo del passato»; a 35 anni, «Ah, se ci fosse ancora papà!». Mai riflessione è stata più azzeccata.

Che passo in avanti farebbe il mondo se milioni di uomini, sistemando la statuetta di san Giuseppe nella grotta del presepe, s’interrogassero sul valore di quel papà.

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